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Immigrazione: il fallimento delle politiche comuni della Commissione Ue. Restano le resistenze di molti Stati

BRUXELLES – Anche dopo il vertice europeo del 9-10 febbraio, presentato come un gran successo dell’Italia dal premier Giorgia Meloni, sembra ancora quasi impossibile procedere alla redistribuzione nell’Ue dei richiedenti asilo che entrano irregolarmente in uno dei Paesi di frontiera.

In base al cosiddetto Regolamento Dublino, adottato per la prima volta nel 2013 e ancora vigente, un richiedente asilo infatti può presentare la propria domanda solo nel Paese di primo ingresso. Questo sistema è stato duramente criticato sia da alcuni governi che dalle organizzazioni della società civile perché imporrebbe un onere sproporzionato agli Stati frontalieri dell’Ue, soprattutto quelli affacciati sul Mar Mediterraneo.

Un’interessante sintesi dell’attuale impasse delle politiche migratorie della ue è spiegate efficacemente e senza preconcetti politici e ideologici dal giornale europeo Euronews,

Il quale constata che ogni tentativo di modificare il regolamento stato finora vano. “L’attuale politica migratoria è intrappolata tra l’incudine e il martello”, dice a Euronews Andrew Geddes, direttore del Migration Policy Centre presso l’Istituto universitario europeo. “I flussi migratori proseguono, mentre gli Stati membri faticano a concordare una serie di soluzioni efficaci e comuni”.

Alcuni Stati, spiega l’esperto, semplicemente si limitano a rifiutare ogni programma che preveda il trasferimento di migranti in tutta l’Unione. Nel Pact on Migration si propone infatti un meccanismo di “solidarietà effettiva”, che si attiverebbe nel caso un Paese dell’Ue si trovasse “sotto pressione o a rischio di esserlo” a causa di un alto numero di arrivi di migranti.

Gli altri Stati avrebbero allora tre possibilità a disposizione: accettare il ricollocamento sul proprio territorio di una quota di richiedenti asilo, prendere in carico il rimpatrio di una quota di persone a cui è stato negato l’asilo, o finanziare una serie di “misure operative” nel Paese sotto pressione, come centri di accoglienza e mezzi di trasporto. Il contributo di ogni Paese sarebbe calcolato in base al Prodotto interno lordo e alla popolazione, e sarebbe obbligatorio per tutti i 27 membri dell’Ue. Proprio per questo, è difficile che il meccanismo venga accolto: Paesi come quelli del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia) sono fortemente contrari a ogni tipo di ricollocamento obbligatorio.

Dall’altra parte, Stati come Germania, Francia, Italia o Grecia ritengono che il meccanismo sia troppo “morbido”, lasciando a disposizione dei Paesi due opzioni che non comportano l’effettiva redistribuzione delle persone.

Nel frattempo un meccanismo di ricollocazione volontaria istituito con il supporto di 19 Paesi dell’Ue più Norvegia, Islanda, Svizzera e Liechtenstein ha finora portato a 435 ricollocamenti effettivi su una quota di 8mila previsti su base annuale. Un passo avanti ridicolo, che non accontenta i Paesi che si sentono più esposti all’incidenza dei flussi.

Al momento i Paesi dell’Ue non riescono a rimpatriare la gran parte degli stranieri che si trovano irregolarmente sui propri territori. A fronte di oltre 342mila decisioni di rimpatrio emesse nel 2021, circa 80mila soggetti coinvolti sono effettivamente tornati nel Paese d’origine: meno di un quarto del totale. E il trend sembra simile nel 2022: nel terzo trimestre, ad esempio, meno di 32mila rimpatri effettivi su quasi 110mila decisioni di allontanamento.

Diversi governi vorrebbero invocare l’articolo 25a del codice dei visti dell’Ue per introdurre misure restrittive nei confronti dei Paesi “non collaborativi”. La presidente della Commissione Von der Leyen propone progetti congiunti per combattere il traffico di esseri umani e di una cooperazione per accelerare i ritorni e frenare le partenze.

Simbolo di questa tendenza sono i fondi destinati al supporto della Guardia costiera libica, incaricata di combattere i trafficanti di esseri umani e impedire le partenze dalle proprie coste verso l’Europa. A Tripoli è appena stata consegnata la prima di cinque motovedette finanziate dall’Unione Europea nell’ambito del progetto Sibmill, dedicato al controllo della migrazione in Libia. Per il Nord Africa in totale sono stanziati 800 milioni di euro fino al 2024, ha spiegato il commissario europeo all’Allargamento e al Vicinato Olivér Várhelyi.

Non ci sono bacchette magiche a portata di mano per la controversa questione della condivisione delle responsabilità”, spiega a Euronews Alberto-Horst Neidhardt, esperto del tema presso l’European Policy Centre (Epc). “Per troppo tempo il dibattito sulle migrazioni è stato privato di nuove energie e ossigeno vitale, condizionato da interessi nazionali e agende politiche a breve termine”. La perenne mancanza di consenso su come affrontare internamente la migrazione “rischia di tradursi in un’attenzione sproporzionata al rimpatrio e alla riammissione”, aggiunge l’esperto. Il dibattito a Bruxelles sembra infatti focalizzarsi molto sulla dimensione esterna del tema: il controllo delle frontiere, i rimpatri dei migranti irregolari, i rapporti tra l’Ue e i numerosi Paesi di origine e i sempre più numerosi tentativi di prevenzione degli arrivi.

Critiche ovviamente da parte dell’ala sinistra del Parlamento europeo, da sempre favorevole agli arrivi incontrollati .”Sono un’eurodeputata della parte orientale della . Ho vissuto tutta la mia giovinezza dietro un muro. Finanziare le recinzioni con fondi europei non è solo un brutto ricordo per me, ma anche un passo indietro per l’Europa”, spiega a Euronews Cornelia Ernst, della Linke tedesca. Ma sembra che l’aria a livello europeo tiri esattamente in quella direzione, visto che la presidenza di turno dell’Unione è retta dal governo svedese, molto rigido sul tema migratorio.

“Il processo decisionale condizionato dal panico alimenta un approccio basato su paure infondate piuttosto che su bisogni, interessi, considerazioni sulle risorse o sugli obblighi giuridici”,  scrive  Catherine Woollard, direttrice del Consiglio europeo per i rifugiati, sostenendo che l’allarmismo venga in realtà provocato artificialmente dagli esponenti governativi per fini politici. Una dinamica destinata a riproporsi nel prossimo vertice, e ancor di più con l’avvicinarsi delle elezioni europee.

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